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LUCIO ZINNA: In “Su nuove e antiche forme”, di Giuseppe Risica, troviamo una poesia intensa e rarefatta al tempo stesso, con testi ricchi di riflessione e di sentimento, condotti con finezza formale, essenziali, con un gioco di metafore calibrato (dunque non insistito, debordante, come a volte accade di leggere). Mi riferisco, in particolare, a liriche (fra le più significative della raccolta) quali "I morti", "Allora cominciavo", "Achab", "Biancaneve", "Cotidie", "Addio". Una poesia - attenta alla realtà circostante e al quotidiano, ma capace di travalicarli -, a prevalente valenza esistenziale (più evidente in "Da qualche tempo", "Padre", "Gli occhi dell'addio"), con un forte sentimento del tempo, che è come il sottofondo discreto della silloge, fino al più esplicito testo conclusivo. Un discorso poetico, dunque, denso e piano, con fugaci, preziose suggestioni, qua e là, simboliste ("Scirocco", "La porta", "Il vascello", "Il viaggio") o mutuate da un immaginario classicamente surreale ("Il talismano", "L'ippogrifo", "La sentenza"). Ho apprezzato, infine, alcune icastiche poesie d'amore (a parte qualcuna già menzionata in altro contesto) quali "Il guardiano del faro", "Il portachiavi" (splendida!), "Metastasi", "Il caffè", "Restarono gli odori", "Ti porterò". Che altro? Un bel libro di versi, che emerge da tanta paccottiglia. |
GIORGIO
BARBERI SQUAROTTI: |
Il
guardiano del faro
di VINCENZO LEOTTA (Recensione
a “Su nuove e antiche forme” di Giuseppe Risica) Giuseppe
Risica (nato a Messina nel 1955, vive a Tonnarella di Furnari e lavora come
cardiologo nell’ospedale di Barcellona P. G.) è un poeta che, ha saputo
conquistarsi un suo spazio e un suo modus scribendi. Già con Mare
dentro Mare, che giustamente ha richiamato l’attenzione di critici
illustri come Giuseppe Amoroso e Giuseppe Miligi, si intravvede nella sua
scrittura una svolta che sarà fondamentale: qui, con un linguaggio sia pure a
tratti disomogeneo, i colori e i sapori del mare, i contorni nitidi eppure
sfumati di un paesaggio amato, e talvolta anche odiato per eccesso di amore, si
fondono con i trasalimenti di uno spirito inquieto, proteso ad esplorare, nel
mistero della natura e nei labirinti dell’io, l’eterno conflitto tra il bene
e il male, tra la vita e la morte. Da Mare dentro Mare a Su
nuove e antiche forme, la recente, ben meditata raccolta data alle
stampe per le Edizioni del Leone (Spinea-Venezia, 2003), trascorrono appena
cinque anni, sufficienti però per segnare non direi un salto di qualità, ma
una marcata evoluzione della scrittura parallelamente all’alleggerirsi
dell’acceso autobiografismo e dei moduli prosastici che appesantivano il
dettato poetico. Il guardiano del faro è il testo che, a nostro avviso,
rappresenta ed esemplifica questo processo di maturazione, perché rivela con
esattezza l’atteggiamento psicologico del poeta, non più immerso totalmente
dentro il mare e quindi incapace di guardare con occhi limpidi e la terra e il
mare stesso. Egli adesso è nel «faro» e da questo osservatorio privilegiato
può osservare le vicende turbolente della vita, come i grovigli inestricabili
dell’animo umano, con il necessario distacco e con uno sguardo più lucido e
disincantato. Al centro della raccolta c’è
sempre l’io poetico che vigila, scruta dentro e fuori di sé, si pone
interrogativi che non trovano risposta: «Quale rotta seguire, comandante?» (Quale
rotta); «Quante porte dovrò aprire / prima di giungere fino a te?» (Biancaneve).
E vibrano le corde intimistico-familiari, riaprono ferite mai cicatrizzate e
ridestano memorie sopite. La morte del padre, innanzitutto, evocato in alcune
poesie dagli accenti molto toccanti eppure contenuti in un dolore raccolto. Il
poeta è certo che il padre non soffre più nella insensibilità marmorea della
morte, ma questo pensiero non gli dà sollievo: «Salgo le scale che mi portano
a te, / padre, e il vuoto che risvegliano i miei passi / è affanno che stringe»
(Padre). Impossibile elaborare un lutto così atroce, colmare un vuoto
così profondo (Il lutto). Non resta che affidarsi al ricordo, rivivere
col cuore episodi effimeri, frammenti della oscura vicenda umana: «Mio padre
ritornava talvolta a notte fonda / e al suono delle chiavi nella toppa / gli
occhi chiudevo, spalancando il cuore» (Del tempo trascorso). Poche,
secche immagini di un rapporto ormai tutto interiorizzato, schegge di un passato
lontano o vicino che hanno scavato un solco che nulla potrà più riempire: «Non
mi sento cambiato / ma non sono più quelle che ero / e mio padre è una scritta
sbiadita sul portone» (ibid.). Alla
figura del padre è associata la madre, come se anche lei fosse morta, in questi
versi di intensa drammaticità: «Nulla potrà più farti del male / ora lo sai
che quello dei sorrisi / è un tempo non più tuo. / Sei una canna spezzata,
madre, / e il vento di maestrale t’attraversa» (Madre). Bastano i pochi versi citati per
comprendere la cifra di questo poeta, che è data dalla misura, cioè dalla
capacità di non lasciarsi soffocare dai grumi dell’esistenza e di conservare
il giusto grado di partecipazione emotiva. Donde una scrittura asciutta –
rari i cedimenti o le sbavature –, spesso modellata sulla forma
dell’epigramma, che sembra la più congeniale al temperamento poetico di
Risica. Dell’epigramma, infatti, ritroviamo qui le caratteristiche essenziali.
La prima è la brevità dei componimenti: su settanta, ben sessantacinque non
superano i dieci versi, mentre i rimanenti cinque ne hanno meno di venti. La
seconda è l’apoftegma in clausola finale, dalla sigla gnomica e apodittica:
«Chi conosce il sonno degli abissi / non cerca più la luce del sole» (Achab);
«Oscura è l’alchimia del dolore» (L’ippocampo); «e cerco spesso
il sonno, senza aspettare sogni (Da qualche tempo); «Vi è persino
armonia nel caos / prima del torpore» (Torpore). La terza
caratteristica, forse la più significativa, è costituita dalla varietà del
contenuto, pur nella sostanziale unità del motivo conduttore: un sentimento
della vita – più che una concezione razionale –, risolto nei
simboli del mare e del viaggio, che adombrano una esistenza caotica, precaria e
destituita di senso. L’uno, il mare, imprevedibile e infido nella bonaccia,
rovinoso nella esplosione delle sue tempeste; l’altro, il viaggio, inteso come
un errabondare «senza fine» (Il viaggio) perché non esiste né una
direzione né una meta. Cadute tutte le certezze e tramontate le ideologie, la
realtà appare «un caos vagabondo / che erra in cicli mai conclusi /dal vento»
(Tempesta). Un girare in tondo che equivale a una immobilità assoluta,
da cui non si evade perché «la porta è sbarrata» (Porta) o si
evade solo con la resa definitiva: il naufragio, la morte. Il poeta si raffigura
non artefice e protagonista della sua esistenza, ma «legato alla ringhiera /
sempre da verniciare / di questa nave che non parte mai» (Tempesta);
oppure si vede «sigillato in un sepolcro / di carta» (L’assedio). Una
situazione statica che però è astutamente rimessa in moto, rilanciata
dall’attesa di un evento epifanico (Attesa), dai sogni cui l’insonne
poeta non può o non vuole rinunziare e, soprattutto, dal desiderio mai spento
di un volto e di una carezza femminili, che accende passioni violente, alimenta
emozioni intense e tremende delusioni. Nascono da qui gli scatti irosi,
taglienti, ironici o autoironici (la «lapidaria ironia» rilevata da Melo Freni
nella sua incisiva prefazione), toni e modi che riconducono all’autore dell’
Osso, l’anima e dell’ Aria secca del fuoco, forse più per una
singolare affinità di indole che per una consapevole, diretta derivazione,
anche se Cattafi è per Risica se non il maestro, certamente l’interlocutore
più amato. Questa vena caustica attraversa
molte liriche (Licantropo, Il nodo, Metastasi, Il
talismano, L’addio…) dove le separazioni, i distacchi, gli addii,
se da una parte segnalano la crisi o la fine di un amore – e rafforzano il
pessimismo esistenziale di fondo –, dall’altra risvegliano «ricordi di
ferite sulle labbra» (Arancia) e lasciano tracce indelebili: «Restarono
gli odori a parlarmi / di te. Fu inutile lavarmi, usare / ogni tipo di sapone,
strigliare / la pelle fino al sangue…» (Restarono gli odori). Non mancano, tuttavia, momenti di
tenerezza, di abbandono, come in questo delizioso quadretto di intimità
amorosa: «Mi piaceva il rito del caffè / che scalza mi portavi nel letto /
dove aspettavo di risorgere. / Era il tuo primo dono (forse / l’unico) da
godere insieme / in quella sola tazza / di porcellana inglese» (Il caffè). Noi ci fermiamo qui. Al lettore
intelligente il piacere di scoprire e gustare altri versi, altre emozioni di un
poeta che fa molto bene sperare sul futuro della sua poesia. |
TOMMASO ROMANO: “Su nuove e antiche forme” mi ha veramente impressionato, con partecipazione ho letto e meditato. Poesia di forte riflessione esistenziale, icastica, cristallina eppure evocata alle profondità dell’anima. Sento scorrere forte l’autenticità. |
ADRIANA BOLCHINI: La
sua poesia, soprattutto quella che si può leggere nella sua ultima fatica “Su
nuove e antiche forme” non è estemporanea, se non in brevi e rari tratti,
in cui le emozioni riescono a liberarsi dal controllo, che lui si impone e quasi
libere: si manifestano, come frutto di un sincretismo onirico, antico e ricco
proprio come il mondo mediterraneo
in cui è nato e vive. Come la sua
isola e tutte le isole dei mari del sud dell’Europa occidentale, ma che
risente inevitabilmente dall’influenza moresca che sale dal nord Africa, con i
suoi suoni ritmici, ondulati, sinuosi e sensuali, a tratti anche qualche
effluvio di deserto sahariano ed echi rimbombanti di gesta e grida, come di
battaglie lontane (…) E’
la sofferenza del corpo dopo le ferite, è la stanchezza della fatica del vivere
quotidiano che il Risica canta in ogni sua lirica, è il sonno dello spirito
quello che riesce ad emergere da ogni angolo più nascosto di ogni sua parola.
(…) Giuseppe
Risica è un poeta maturo, raffinato, che va alla ricerca del verso elegiaco, ma
tendenzioso, pur senza trarne beneficio alcuno, non si concede licenza. (…) Un
paragone fra questo poeta e un grande è possibile nell’assimilarlo
all’archetipo di Eugenio Montale,
anch’esso mediterraneo, anch’esso ha passato gran parte della sua vita
guardando il mare (…) (…)
emblematica è questa poesia che racchiude il segreto della personalità del
poeta, che nel suo sincretismo ermetico non dissimula, ma lascia trasparire la
sua profonda e radicata sicurezza, abilmente celata sotto il dubbio, le
debolezze, le perplessità, ma che ugualmente tradisce il suo pensiero, che
appare nudo e denudato da una sola certezza: la sua. Il
guardiano del faro Quando
il richiamo supererà la voce delle
onde, vieni verso di me senza paure, segui
il segnale che non sa mentire e nella notte indica
la rotta, sfuggirai al bacio degli scogli. Non
ho un castello, per te c’è una torre di
luce che sovrasta quest’isola perduta; ti
attendo da cent’anni almeno e sconosco il
sonno, perché non sono un principe ma
il guardiano del faro. E’
lui il guardiano è lui il faro, è lui che dall’alto della sua torre di sassi
e di luce guarda il mondo verso il basso, profondo e buio come le sue paure, le
sue ansie del vivere le sue angosce, i suoi implacabili giudizi ed è sempre lui
che chiede di salire di andarlo a cercare, perché lui non ha i piedi: è una
torre. Non ha radici: è un faro e
tutto quello che crede di poter fare è stare fermo al frangersi dei flutti,
illuminare il la rotta ai naviganti, e aspetta che dal mare salgano echi e
vengano le barche verso di lui. Ma
il faro non è un porto, è uno scoglio e sa che i pescatori o i pirati non vi
sosteranno a lungo, qualcuno non approderà nemmeno ma passerà oltre, andando
verso la terra ferma, da cui lui ormai si è distaccato ed a cui non vuole
tornare. Potrà
mai trovare la pace fuori dalla sua torre illuminata? |
SEBASTIANO LEOTTA: E si tratta di una maturità poetica che è sempre vigile e mai paga di sé: (“ quale rotta seguire comandante?”), maturità che trova nei versi la sua stilizzazione e la sua fenomenologia fatta di oggetti e situazioni. Ma si tratta di una percezione che li coglie in negativo (si legga la poesia di apertura), ossia Risica introduce nelle cose – anche le più quotidiane- un supplemento di inquietudine e di spaesamento:
Ne ero certo la casa mi osservava con i suoi segreti celati (…)
Dovevo
fuggire
per me non c’era posto,
ero di troppo, un estraneo. Il poeta antivede, anticipa, ciò che sarà e ciò che è sempre stato. Così Risica – con un utilizzo personale del passato remoto – si prepara al congedo in figure e in poesia. La percezione della verità dove “tutto ha un nome che non cambia” si fa sfrangiata e chiaroscurale, il poeta vede negli interstizi, nelle minime attestazioni di esistenza “come un cerino nelle notti di guerra”. L’accenno
al passato, di marca tutta cattafiana, viene confermato- cosa già notata dal
prefatore- da una poesia dedicata al grande poeta messinese (“Idi di marzo”)
e dalla ripresa di luoghi fisici a Cattafi molto cari (p.e. la spiaggia).
Risulta allora verissima la nota tesi goethiana che per capire i poeti bisogna
andare nella terra dove vivono. Infine la memoria. La memoria di Risica cerca di resistere all’annientamento, ma in questo libro non c’è consolazione facile -del resto ai versi non si chiede questo-, la memoria si sfalda, anche quella dei più cari come “ una scritta sbiadita sul portone” E soprattutto in quelli che sono un condensato di memoria implicita, cioè i morti, si apre lo sguardo attento di chi ne misura tutta l’irrimediabile e inalterabile assenza. Come, appunto, nella bellissima poesia “I morti”: Parlavamo
dei morti in quelle sere d’inverno che il vento
gridava avvinghiando la pioggia; così tra
sorrisi e paste secche sembravano
tornati insieme a noi. Io li
immaginavo invece nei sepolcri, soli, con
l’acqua che violava le fessure e lentamente
penetrava gli occhi. Qui si sente il ricordo di Baudelaire (“I fiori del male”, la servante au grand coeur vous ètiez jalouse) e di Joyce (il racconto “The dead”), si tratta invece di Giuseppe Risica, poeta messinese.
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FAUSTA GENZIANA LE PIANE:L’ultima silloge del poeta Giuseppe Risica “Su nuove e antiche forme” Come
si dice nell’introduzione, Giuseppe Risica è “un medico che abita vicino al
mare”, ”siciliano del Tirreno”: infatti, è cardiologo, è nato a Messina
e abita a Tonnarella, di fronte a capo Tindari e alle Eolie. Ricche intorno a
lui le formative risonanze poetiche, dal tanto amato Salvatore Quasimodo, a
Bartolo Cattafi, vicino alla cui casa egli vive. Dopo
“Mare dentro mare”, raccolta di liriche che ha riscosso un notevole successo
di pubblico e di critica, Giuseppe Risica si conferma con questa nuova
pubblicazione poeta di ampio respiro. “Non sempre, dice ancora Freni, si porta
il mare nel cuore, non sempre la luna”, altre possono essere le fonti
d’ispirazione. Non
fosse altro che per normale svolgimento diacronico del tempo, ci si aspetterebbe
di leggere nel titolo “Su antiche e nuove forme” e non “Su nuove e antiche
forme”, come pure la raffigurazione del quadro di Giorgio De Chirico, “Il
canto dell’amore” (1914), scelto per la copertina, lascia intendere. Ma
è Risica stesso che nella lirica d’introduzione – Negativi – spiega le
ragioni che hanno determinato la cronologia del dipanarsi del suo colloquio
introspettivo: “Il nastro di verità celate nella camera oscura, ha numeri
precisi, a scalare e una data di scadenza incisa in qualche posto”. Il suo è
un viaggio compiuto a ritroso nel tempo, “un ritorno”, “la ripresa di un
discorso/mai chiuso” da cui emerge per prima vivida la figura del padre, al
quale il libro è dedicato. Nella
poesia intitolata “Padre” torna chiaro il sentimento di perdita
inconsolabile già espresso in “Danzava la vite” di “Mare dentro mare”.
Non giova al poeta sapere che il padre non soffre più e che ora riposa in pace:
l’affanno stringe il cuore e i passi riecheggiano nel vuoto. In
“Del tempo trascorso”, che suggella la raccolta, neppure il ricordo
infantile del “padre che ritornava talvolta a notte fonda” fa dimenticare
che se è vero che “al suono delle chiavi nella toppa/gli occhi chiudeva,
spalancando il cuore”, “il padre resta una scritta sbiadita sul portone”. La
morte, d’altra parte, è presente in molte liriche che rimandano al concetto
di “sonno” fisico ma anche di “torpore” spirituale da cui è egualmente
impossibile svegliarsi. Così è per Biancaneve che “non sarà risvegliata da
un bacio”, per Achab, “morto mille volte/sotto il sorriso freddo/delle
stelle”, per l’ippocampo, “pietra, oggetto, mummia trafitta”, per il
morto il cui “sguardo punta/dritto al cielo”. “Sonno”
e ”torpore” sono parole ricorrenti, come anche il termine “ruggine” che
indica ciò che di consumato e corroso c’è nell’avventura umana. Non è
forse arrugginito l’arpione d’Achab stanco di spingerlo “nel fianco/della
balena bianca”? Non colano “bave di ruggine dalle orbite” del fatiscente
vascello? E’
curioso osservare come alla “ruggine” si opponga la “vernice” ad
indicare fiducia, speranza ed un futuro che il Poeta spesso non sa affrontare.
Così, è sempre da verniciare la ringhiera della nave che non parte mai e alla
quale è legato; così, coi gomiti intarsiati di vernice, conta le stelle la
sentinella al vertice del ponte… Tornano
le antiche forme delle metafore legate al mare non solo nella scelta dei
personaggi, solitari e maledetti come Achab, il guardiano del Faro, il
comandante, le sentinelle, ma anche in quella degli oggetti e delle immagini
evocate che lasciano intendere nostalgia per la vita di mare: mappe distese
sopra tavoli zoppi, vascelli, ringhiere di navi, scie di barche irraggiungibili,
gomene, ancore, polene e bompressi. In
questa visione disperata dell’umano destino – non si sa la rotta da seguire
-, se speranza c’è, non è nell’amore che bisogna riversarla. L’amore è
un sentimento raggelato e violento, legato anch’esso al sentimento della
perdita: ”Così m’hai detto addio, va bene/io l’accetto”. E
neppure nelle parole e nei ricordi, “non credo lascino tracce consistenti/le
parole, nel sottobosco folto dei ricordi, /poi
che è trascorso il loro breve tempo”. L’unica
speranza per Risica è la natura che osserva con affetto e serenità: saranno
“le labbra rosse della passiflora”, il germogliare della pioggia, le
“sagge chiocciole”, l’edera “sui muri a tentare di legare qualche
sasso”, il “fresco di rugiade autunnali”, “il profumo di limoni
acerbi”, “il respiro dell’aurora”, “le arance profumate” a vincere
l’abisso, il vuoto, il nulla. Saranno
i sogni - lui che “studiava l’arte dei sogni” –, le visioni dei
“pirati saraceni che andavano per mare/senza il tormento di inutili domande”
e “il grido di guerra dei templari”. |
ISABELLA
MICHELA AFFINITO: |
MARIA GRAZIA MURDACA: Memoria e ricordo diventano, quindi, le chiavi d’accesso per vivere il presente, sulle orme di un passato spesso doloroso, qualche volta incomprensibile, altre ancora inevitabile, spalancando le porte della quotidianità alla pallida conoscenza dell'ignoto, del tempo, del nulla. E’ proprio da qui che, sasso dopo sasso, si concretizza “Su nuove e antiche forme” di Giuseppe Risica, una singolare composizione poetica in cui l’autore scava come con un bisturi, mettendo a nudo l’indecifrabile grigio della sorte, attraverso l’utilizzo della metafora tagliente e oculata, di alcuni tagli ermetici, con uno stile personalissimo, evidenziando quella sorta di pessimismo congenito che, sul piatto della bilancia della vita, oscilla tra onirica illusione e ineludibile realtà. Nella trasposizione poetica, l’Autore, immortala le immagini in magiche incognite congiungendone con un filo sottilissimo i lemuri che uniscono e spezzano l’equilibrio della carne e dell'anima, nel consapevole passaggio fra vita e morte, gioie e dolori, attimi ed eternità. Un balsamo mistico e struggente di tarli, risposte, interrogativi, abbandoni, amalgamati in effigie d’alabastro e trafitti sospiri, e incisi come geroglifici sulle pareti di una mappa ancora da completare. Attraversando in punta di piedi le parole, spesso mimetizzate da una corteccia dura quanto sapiente, mi sono addentrata nel cerchio concentrico di quell'albero oramai maturo che ingloba in sé i suoi anni ed il suo sapere, cosciente della caducità esistenziale dell'uomo e degli oggetti che, attori e spettatori, cedono il posto agli spettri lungo il tempo del destino, dove il fragile vascello segue incerto le limpide oscure acque del suo mare. Ed il mare continua ad essere il perno intorno al quale tutto gira per Risica, e del resto non potrebbe essere altrimenti, considerando il fatto, d’indubbia evidenza, che nelle sue opere c'è una palese simbiosi con quest’elemento affascinante e misterioso col quale lo Stesso, s’identifica. Afferma Friedrich Ruckert <<…Speranze dietro speranze svaniscono, ma il cuore continua a sperare; un’onda dietro l’altra si rompe, ma il mare non si esaurisce. Che le onde si abbassino e si sollevino, è questa appunto la vita del mare; e che si speri di giorno in giorno, è così fatta la vicenda del cuore>>. Sezionando per ben tre volte l’intero libro (quasi come a volerne captare l’essenza), sono inevitabilmente scivolata in quelle perfette immagini, catturata da una magia quasi reale che abbandona la mente al trasporto emotivo. La
sua poesia, strettamente agganciata al silenzioso orologio che scandisce quasi
inavvertitamente gli eventi, ruota attorno a quell’analisi sviscerata e
spirituale di tribolati felici giorni e meditate consapevolezze che purificano
persino i dispiaceri e li innalzano a fiduciosa speranza, pur essendo avvolti
dalle coperte della rabbia che inconsciamente si ribella alla rassegnazione. Mi
è sembrato di scorgere da un lato, la figura del saggio assorto nella
contemplazione di se stesso e del mondo; dall’altro, il nascosto alchimista
intento a mutare la subdola materia per contemplarne finalmente la sintesi. Adoro
riflettere l’ironica licantropia che schiva il sangue…; l’immagine di quel
nodo serrato alle budella…; il gatto ignaro della sua ultima vita…; la tazza
di porcellana inglese…; la mappa distesa sopra il tavolo zoppo…; il suono
delle chiavi nella toppa…; quella canna spezzata dal vento di maestrale…;
l’amico fraterno, forse, troppo amato dagli dèi,
per questo,
rapito ai
suoi giorni… Una
guerriglia d’immagini che nascono da un malessere esistenziale dietro il quale
(al contempo), si cela, pur contraddittoriamente, un indole estremamente
energica, decisa conseguenza di quell’anima idealista che s’introflette,
si guarda, si giudica e tende a ricondursi a quel canale primigenio da cui
tutto assume forma. Alcuni
corpora dell'autore utilizzati (forse casualmente), mi hanno rievocato gli
eterni poeti maledetti, ma, senza ombra di dubbio, ciò che ho letto, nulla ha di
reiterato, né tanto più assomiglia a qualche fotocopia fantasma, come spesso
accade a quanti mancano d’originalità. La
vita abbandonandosi ai silenzi e alla solitudine, consuma come una candela i
giorni migliori e fugge come l’acqua del ruscello che non risale la china,
mentre statutario rimane il museo dei ricordi… Desiderando esprimere un modesto giudizio su quest’opera non posso eludermi dal dire che l’alcazar di Giuseppe Risica”, Su nuove e antiche forme”, accede a quel piano elegante e di sublime raffinatezza già propri di un suo precedente libro”Mare dentro mare”, ma qui, inequivocabilmente, coronato da un ulteriore profondità, emotività, trasparenza, verità. Nel
congratularmi per l’opus perfectum, colgo l’occasione per auspicare al
Maestro, un prossimo “fotogramma fragile alla luce”. |
ROBERTA
PANIZZA: Giuseppe
Risica, poetica creatura marina dalle sembianze umane, lo sa bene: l’acqua che
infiltra non si può a lungo celare, così anche la poesia può essere solo un
momento arginata appoggiando la penna sul foglio lasciato di proposito bianco,
ma essa finisce comunque con lo sgorgare dal cuore. Se la poesia è, non la si può negare. Come non si può negare il sonno alle membra stanche ed i sogni ad una mente razionale, così non si può negare neppure un solo verso a chi, malato di poesia, trova in essa lo sfogo ristoratore a tormenti e tempeste interiori. Tornano i pescatori a riva dopo le fatiche del mare, e in quel ritorno è il senso di tanto sudore, e torna il Poeta alle sue carte, a riporre, ordinare e ripensare i gesti, le parole, i desideri e i sentimenti, e nella sosta si rigenera e sicuramente illumina i difficili giorni della fatica e del quotidiano. Che la poesia è forse anche movimento l’ho già detto altrove e in questo caso tale constatazione può probabilmente acquistare maggior senso poiché, effettivamente, con “SU NUOVE E ANTICHE FORME”, la nuova raccolta di poesie di Giuseppe Risica, il Poeta esplora nuovi modi di espressione e chi conosce le sue poesie precedenti a queste lo sente fin dalla prima lettura dei versi contenuti in queste pagine. Presenze certamente costanti rimangono il mare ed i suoi contorni che però sono qui meno visibili, più che altro una traccia da seguire per il nuovo viaggio che si presenta, fin dalla partenza, come un susseguirsi di immagini, flash di pochi attimi di luce a svelare un’anima in tormento e che lasciano pensosi e stupiti con una sensazione dolceamara tra la bocca e il cuore. Come tutti i viaggi, anche questo inizia carico di giorno con la poesia LA SINTESI, seppur contornato da dubbi e interrogativi con QUALE ROTTA, ma ormai l’ancora è levata e già il Poeta, che non sa e non vuole sottrarsi al viaggio, percorre i flutti della propria anima, luoghi nei quali l’io razionale fatica ad addentrarsi, ma che la poesia fa emergere dalla nebbia: sogni, ricordi, bonacce di malinconia e fondali di dolore in forme che dipingono la passione e il sentimento. L’orizzonte è ampio e si allarga anche sulla terraferma portandoci i colori, i sapori e i profumi della Sicilia, inevitabile personaggio di questi versi, colore di fondo al quadro sul quale compaiono in successione anche gli affetti del Poeta: il padre, la madre, l’amico e figure che percepiamo come presenze indistinte, immaginate o meno, pensate o desiderate, figure comunque che in virtù di tutto questo esistono e queste righe svelano. Non potava mancare l’amore, pulsione alla quale, credo, nessun verso di poeta riuscirà mai a sottrarsi, ma sembra quasi che in questo caso chi scrive voglia giocare, scherzare con questo sentimento offrendoci poesie ironiche che strappano persino un sorriso malgrado lo scherzo non sia sempre a lieto fine. Così leggiamo: IL NODO, IL PORTACHIAVI, LA PELLE, IL TALISMANO e ADDIO. Dove però finisce lo scherzo si incontrano versi che, addentrandosi nei luoghi segreti dell’anima, possono farlo solamente servendosi di metafore, di similitudini e di tutti quegli strumenti che la poesia mette a disposizione del Poeta per fare in modo che il lettore non rimanga folgorato dai lampi dell’anima e accecato dai suoi antri a volte profondamente bui, altrimenti insondabili. Nascono quindi poesie come LICANTROPO che ci conduce leggera e quasi noncurante al brivido finale, TEMPESTA, A VOLTE, CREPUSCOLO, DIVENIRE, SILENZIO e DIES IRAE. Non solo l’amore per la conoscenza rende però gradevole il percorso tracciato dal Poeta, anche lo stile di tale viaggio rende agevole il cammino, raccontato più che declamato, confidato più che svelato in un dialogo a tu per tu adatto a chiunque abbia abbastanza cuore da saper ascoltare. Ed ora non posso non mostrarvi brevi saggi di poesia celati tra queste pagine che meglio di tante parole possono spiegare per quale motivo già in tanti amano la poesia di questo autore: “Quindi
avvenne le sintesi non so
quanto aspettata, certo voluta perché
l’alchimia compisse il
suo percorso, il cerchio
sospeso in mezzo
ai quattro punti cardinali…..” “…Le mie
fughe soltanto diventavano frequenti ma
distratte ricadevano sulla
soglia, senza far rumore….” “…Sei
una canna spezzata, madre, e il vento
di maestrale t’attraversa…” “…Ho
fatto un nodo assai serrato alle budella, gordiano,
così da non poterti digerire…” “…Le
rondini tentavano la mente..” “…Germoglia
la pioggia dall’alito del mare,
avvicinando agli occhi l’orizzonte…” “...Padre,
e il vuoto che risvegliano i miei passi è affanno
che stringe.” “Era fitta
di croci irregolari l’ampia
ferita che tagliava in due
esatte metà il litorale, confine
artificiale tra la resa e la
partenza, il passero e il
gabbiano, il bene e il male…” “E’
difficile divenire silenzio, pietra
finalmente levigata sopra
giacigli nudi d’alghe…” “…Ora il lembo
estremo del fiume ha levigato
le pieghe del cuore, perfezione
che somiglia al nulla….” BUONA
LETTURA! |
RAIMONDO VENTURIELLO: (...)
Autorevolmente riconosciuta a Giuseppe Risica la patente di “poeta di
razza”, solo “en passant” rileviamo che si tratta di poesia colta e
raffinata – ricercata nel lessico, smagliante nello stile, di grande musicalità
nella scioltezza del verso libero – e subito entriamo nelle pagine della sua
nuova performance in versi, "Su nuove e antiche forme", alla
ricerca dei contenuti salienti del suo messaggio. La
sequenza iniziale di liriche credo rappresenti significativamente sia
l’approc-cio al “poiein” seguito dall’Autore, sia l’ampiezza dei
moventi ispirativi. Le
prime due – “Negativi” e “La sintesi (pp. 9 e 10) – dànno già conto
dello smisurato campo d’indagine cui il poeta volge lo sguardo e nel quale
egli coglie l’uomo alle prese con le sfuggenti coordinate esistenziali: il
tempo e la storia, il divenire e la conoscenza. Le
successive quattro liriche – “Quale rotta”, “L’assedio”,
“Attesa” e “I morti” (pp. 11-14) – vedono protagonisti gli impulsi
primigeni che spingono l’uomo a compiere un faticoso cammino lungo sentieri
che, non delineati, intende pur scoprire e tracciare. Seguono
altre sei composizioni – da “Allora cominciavo” a “Una maga mi
predisse” (pp. 15-20) – in cui si vede come la tenace volontà
nell’accogliere la sfida anzidetta debba fare i conti, sempre salati, con le
vie impervie della conoscenza. A
questo punto il poeta, pur ritrovandosi ancora in terra di nessuno, non solo non
si perde d’animo ma appare deciso a misurare le proprie capacità di
proseguire e quindi ad interrogare anzitutto se stesso. Così,
dopo il nucleo compatto di liriche introduttive, si passa ad una sorta di
serrato “ping pong” dell’io poetante, introspettivo sì, ma anche proteso
all’altro da sé, per conferme e riscontri. La
frontiera della ricerca si fa ora frastagliata, con rotture di continuità fra
avamposti di certezze e retrovie di dubbi. Ed il poeta scrive il suo diario
dalla trincea, che è fatto anche di scorrerie verso il confine metafisico –
come in “Scirocco”, “Cotidie” (p. 24-25), “Addio” (p. 59) – ma che
è prevalentemente indirizzato a nuclei tematici i quali vanno: -
dall’autoanalisi, con particolare riferimento ai limiti umani – come
in “Da qualche tempo” (p. 21), “La porta” (p. 27), “L’ultimo
diluvio” (p. 35), “Tempesta” (p. 42), “Non vedo più” (p. 55) ed altre
– alla via salvifica memoriale, quale complesso di esperienze e modello di
riferimento, che tocca vette ed intensità cospicue in “Madre” (p. 26) e
“Padre” (p. 39); -
da momenti che rasentano la rassegnazione – come in “Torpore” (p.
33), “Il lutto” (p. 41), “La casa” (p. 63), “Dies irae” (p. 65) –
alla caparbia volontà di reazione, che è particolarmente incisiva in “Il
viaggio” (p. 49) e “Gli occhi dell’addio” (p. 64). L’andamento
che caratterizza la parte centrale di “Su nuove e antiche misure” – che si
potrebbe definire a stringhe tematiche o, volendo, per frattali emozionali di
variabile intensità o rilievo – si attenua nella parte conclusiva della
silloge fino a ricomporre una sequenza omogenea di liriche, che vanno da “Dopo
il naufragio” (p. 72) in poi. In
esse Giuseppe Risica in qualche modo chiude il cerchio del suo messaggio, quando
riprende dai temi d’apertura quello più scottante della conoscenza,
ridandogli peraltro un vigore nuovo, anzi rinnovato e rinvigorito. Qui
il poeta appare meno disorientato e si inoltra ormai nella terra di nessuno reso
sicuro da una bussola della conoscenza che è ora polarizzata ed il cui ago gli
indica la direzione: quella splendidamente rappresentata in “Sovente me ne
vado” (p. 76). Al
termine della lunga marcia che “Su nuove e antiche forme compie”, ci attende
l’oasi. E lì c’è, pronto come goccia che scava la roccia, il grimaldello
che scardina ed apre varchi alla consapevolezza ed alla conoscenza: la Poesia. |
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